Onorevoli Colleghi! - In Italia manca una normativa che riguarda l'autonomia privata della persona nella fase finale della sua esistenza. All'assenza di una normativa specifica fa riscontro un dibattito dottrinale ricco e stimolante. Da tempo ci si chiede, infatti, se e in quale misura l'ordinamento consenta alla persona di disporre dei beni strettamente personali, dell'integrità psico-fisica ovvero della vita. In questi ultimi anni gli sviluppi della scienza e delle tecnologie hanno consentito di allungare la vita media delle persone e l'aspettativa di vita dei cosiddetti «malati terminali». Ciò ha posto dei problemi etici e giuridici, nonché morali e religiosi, di non facile soluzione. Il prolungare la fase terminale della vita di un malato molto grave, il garantire un futuro anche a soggetti non più in grado, minimamente, di prendersi cura di se stessi, hanno fatto sorgere delicati interrogativi in merito alla compatibilità di questi trattamenti terapeutici d'avanguardia con la dignità che ad ogni individuo va riconosciuta, indipendentemente dal suo stato di salute.
      In particolare, ciò che più tormenta le coscienze e la ragione dei medici, dei religiosi e dei giudici ruota intorno al valore da attribuire alla volontà del soggetto malato circa il trattamento terapeutico ed assistenziale da praticare, specialmente quando il soggetto non è più capace di intendere e di volere. Nella società odierna è innegabile il ruolo fondamentale attribuito all'individualismo e alla tutela della libertà di autodeterminazione.
      In questo senso il consenso del paziente agli interventi terapeutici e chirurgici è imprescindibile.
      Viene riconosciuto da più parti che la volontà del malato è fattore decisivo, e non eludibile, nel determinare le scelte terapeutiche del medico.

 

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      Il codice deontologico del 1995, all'articolo 311, descrive il consenso come fondamento di legittimazione dell'atto medico, in ossequio ai princìpi costituzionali di cui agli articoli 13 e 32, sull'importanza dei quali lo stesso Comitato nazionale per la bioetica, nel documento «Informazione e consenso all'atto medico», osserva che: «dal disposto degli articoli 13 e 32 della Costituzione discende che al centro dell'attività medico-chirurgica si colloca il principio del consenso, il quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente che sui doveri del medico. Sicché sono da ritenere illegittimi i trattamenti sanitari extra-consensuali, non sussistendo un "dovere di curarsi" se non nei definiti limiti di cui all'articolo 32, secondo comma, della Costituzione. È da precisare tuttavia che pure il principio del consenso incontra dei limiti, giacché nonostante il consenso, l'intervento risulta illecito quando supera i limiti della salvaguardia della vita, della salute, dell'integrità fisica, nonché della dignità umana».
      Pertanto, il consenso deve rappresentare l'esito di un libero potere di scelta consapevole, il quale, per essere tale, presuppone che il paziente sia informato delle cure a cui potrà essere sottoposto, dei benefìci di tali cure, della proporzione tra benefìci e rischi ad esse connessi, della probabilità di un esito infausto.
      Il consenso, per poter essere rilevante, deve essere espresso da un soggetto capace di intendere e di volere. Si pone, dunque, il problema di conciliare questa esigenza naturale con l'esigenza di rispettare la volontà del soggetto anche nei momenti in cui, a causa del suo stato di salute, non sia in grado di manifestarla.
      Si chiede, dunque, di introdurre nel nostro ordinamento la possibilità, per il cittadino, di dare disposizioni in merito ai trattamenti sanitari futuri: disposizioni che devono valere qualora e quando il paziente non sia più nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Potrebbe risultare il più efficace antidoto contro l'accanimento terapeutico e il più concreto strumento di attuazione di quel principio del «consenso informato», costantemente evocato, ma altrettanto costantemente lasciato sulla carta.
      Ci si è chiesti, quindi, come possa esplicarsi il diritto all'autodeterminazione del soggetto nell'ipotesi in cui sopravvenga un'incapacità fisica o mentale e la risposta, soprattutto nei Paesi di common law, è stata nel senso di attribuire rilevanza alla volontà espressa dal soggetto in un momento precedente al sopravvenire dell'incapacità. In Italia il testamento biologico non ha valore giuridico come espressione di volontà, ed è preso in considerazione solo attraverso un passaggio che è anche deontologico, vale a dire se i medici curanti ravvisano nelle terapie che dovrebbero essere praticate il carattere di «cure inappropriate», in quanto il malato non può clinicamente guarire. Viene introdotto quindi un criterio discrezionale - la decisione di sospendere le cure può cambiare da medico a medico - e quindi si avverte l'esigenza di una legge che tuteli l'inalienabile diritto del malato a decidere come morire.
      Qualche iniziativa è stata presa in questo senso. Nel 2001, con la legge n. 145, il nostro Paese ha ratificato la Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina del 1997, che stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione». Inoltre, secondo il Comitato nazionale per la bioetica, «le direttive anticipate potranno essere scritte su un foglio firmato dall'interessato, e i medici dovranno non solo tenerne conto, ma dovranno anche giustificare per iscritto le azioni che violeranno tale volontà». Ma a nostro giudizio questo ancora non basta. I tempi sono maturi perché si passi dal piano etico a quello giuridico, poiché si tratta di rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e libertà il proprio futuro, soprattutto nel caso si realizzi la sfortunata condizione di impossibilità
 

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e di incapacità di esprimere la propria volontà. Si tratta quindi non solo di salvaguardare il principio dell'autodeterminazione, ma anche e soprattutto di proporre a tutta la popolazione il tema difficile, ma fondamentale, del termine della vita.
      Il consenso informato è una grande conquista etica dei nostri tempi perché permette al cittadino che necessita di terapia di riappropriarsi della decisione se e a quali cure sottoporsi.
      In una società culturalmente evoluta, quale la nostra, è essenziale riaffermare il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato, da redigere anticipatamente prima che un danno celebrale impedisca la sua consapevole espressione.
      Il morire fa ormai parte di un corpus fondamentale di diritti individuali: diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, diritto alle cure mediche, diritto a una giustizia uguale per tutti, diritto all'istruzione, al lavoro, alla procreazione responsabile e all'esercizio di voto.
      Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente. Può, inoltre, indicare un suo fiduciario che, in tali situazioni, agisca come decisore sostitutivo. Facendo propri le preferenze e i valori del testatore biologico, tale decisore dovrà chiedersi se questi avrebbe voluto che la sua vita fosse prolungata in quella situazione oppure no. Solo nel caso in cui dovesse mancare ogni informazione su ciò che la persona avrebbe voluto si dovrebbe scegliere in base a quel che appare il miglior suo interesse nella situazione data.
      Le dichiarazioni anticipate sono certamente un efficace strumento che rafforza l'autonomia individuale e il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (articoli 1 e 3) e alla citata Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina (articoli 5, 6 e 9), questi princìpi acquisiscono nuovo e maggiore rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell'atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all'integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni. La sospensione o la mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un normale esercizio dell'attività medica e non equivalgono all'eutanasia o al suicidio medico assistito.
      In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, in circostanze talmente gravi da far pensare che si stia negando al malato una morte dignitosa, prolungandogli una sofferenza ormai insostenibile.
      È, quindi, fuorviante parlare di «lasciar morire» quando si sottrae il paziente terminale a un trattamento ormai inutile. In alcuni casi, infatti, il medico si trova senza alternative. L'espressione «l'ho lasciato morire» avrebbe senso solo se vi fosse stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in vita, ma quando la morte è ineluttabile non si può più scegliere tra la vita e la morte; l'unica scelta possibile è come il paziente deve morire. Anche per tali motivi, il codice deontologico dei medici ribadisce, insistentemente, il rifiuto dell'ostinazione terapeutica. Il cosiddetto «accanimento terapeutico» viene definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto nel quale l'eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata rispetto agli obiettivi. Il concetto dell'inutilità si rinviene anche nell'articolo 14 del Codice di deontologia medica (1998), che definisce l'accanimento terapeutico come «ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato o un miglioramento della qualità della vita».
      La stessa morale e la stessa dottrina sociale della chiesa cattolica sono molto nette in proposito. Eppure, nelle case e nei nosocomi si consuma, tutti i giorni, un indicibile «scialo» di sofferenza: cure inutili,
 

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interventi superflui, dolori non sedati, terapie protratte oltre ogni ragionevolezza.
      Bisogna dire chiaramente che «sospensione della terapia» non è sinonimo di «cessazione di ogni trattamento». Se viene inteso correttamente, il concetto capta quegli aspetti che rientrano nel buon esercizio della pratica medica, riconoscendo che vi sono stadi nei quali il processo di morte dovrebbe venir reso più «sostenibile» per il paziente. C'è un ampio consenso sul fatto che non vi sia alcun imperativo di ordine etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, a un futile regime di alimentazione intravenosa, a dialisi, al mantenimento farmaco-dipendente della pressione sanguigna, a profilassi antibiotica, o al controllo elettrocardiografico del battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato terminale per un altro paio di giorni o una settimana. La cosa più importante da fare, in questi casi, è adoperarsi per dare sollievo al malato.
      Capita in medicina, ad esempio durante il trattamento di pazienti allo stadio terminale della malattia, che il trattamento in preparazione della morte sia l'unico intervento moralmente accettabile, mentre infliggere una qualsiasi forma di terapia per mantenere in vita il paziente nelle condizioni in cui versa appare moralmente ingiustificato.
      Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte.
      Deve, infatti, essere rispettata la scelta del paziente di non intraprendere certe terapie o di sospendere quelle già iniziate.
      Il Codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti.
      Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando lo ritenga «ragionevolmente utile».
      Allo stato attuale della legislazione italiana, quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza, non vi è altra soluzione che quella di tenere conto delle direttive anticipatamente espresse, secondo quanto dispongono la citata Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina (articolo 9) e il Codice di deontologia medica (articolo 34). È però vero che né l'uno né l'altro testo attribuiscono un valore vincolante alle direttive anticipate. Di qui il valore giuridico e vincolante da attribuire con legge alle «dichiarazioni anticipate», altrimenti denominate «testamento biologico».
      Con il testamento biologico ogni persona può dare disposizioni sui trattamenti sanitari cui vuole o non vuole essere sottoposta e tali disposizioni, vincolanti per il futuro a meno che non vengano revocate, rimangono valide anche nel caso in cui la persona perda la sua capacità naturale o, comunque, non sia più in grado di esprimere la sua volontà.
      Nella presente proposta di legge, agli articoli 1, 2 e 3, viene data una completa ed esauriente disciplina del cosiddetto «consenso informato». È previsto che ogni trattamento sanitario sia subordinato all'esplicito ed espresso consenso dell'interessato, prestato in modo libero e consapevole. Il soggetto titolare ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte le informazioni che gli competono. In tale caso i dati devono essere comunicati al fiduciario e del rifiuto deve essere fatta menzione nella cartella clinica.
      Nell'articolo 1 è previsto, inoltre, come provvedere nel caso in cui sia necessario sostituirsi al consenso del diretto interessato e nel miglior interesse dello stesso.
      Ed ancora si è ritenuto di precisare che il rifiuto deve essere rispettato anche se dalla mancata effettuazione dei trattamenti stessi derivi un pericolo per la salute o per la vita, specificando che il medico è esentato da ogni responsabilità conseguente al rispetto della volontà del paziente.
      L'articolo 2 stabilisce che, nel caso in cui il paziente versi nello stato di incapacità di accordare o di rifiutare il proprio consenso, i medici sono tenuti a rispettare la volontà espressa nel testamento biologico e, in subordine, quella manifestata dal
 

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fiduciario o, laddove nominati, dall'amministratore di sostegno o dal tutore e, in loro mancanza, dai prossimi congiunti e conviventi.
      In caso di impossibilità di decidere provvede il comitato etico della struttura sanitaria di ricovero.
      L'articolo 3 dispone per il caso di stato di incapacità di colui che deve essere sottoposto a trattamento sanitario e per i casi di urgenza.
      L'articolo 4 disciplina il consenso al trattamento nei casi in cui oggetto dello stesso siano soggetti minori o interdetti.
      All'articolo 5 viene dato riconoscimento giuridico al testamento biologico, il quale rimane vincolante per i medici in caso di perdita successiva delle capacità naturali. Vengono previsti le modalità di formazione dello stesso e i modi di formazione del registro dei testamenti biologici, istituito presso il Ministero della salute, nell'ambito di un archivio unico nazionale informatico. Si è previsto, in modo esplicito, che il testamento biologico produce effetto dal momento in cui interviene lo stato di incapacità decisionale del predisponente.
      Lo stato di incapacità è accertato e certificato da un collegio composto da tre medici specialisti, designati dalla direzione della struttura sanitaria di ricovero.
      Per rendere ancora più efficace e sicuro l'adempimento delle volontà di chi ha redatto per iscritto il suo testamento biologico, è prevista all'articolo 6 la nomina di un fiduciario, a cui è affidato l'importante ruolo di attuare la volontà del disponente e di effettuare la corretta interpretazione delle volontà espresse.
      In conclusione, la presente proposta di legge vuole essere un contributo affinché il testamento biologico sia introdotto al più presto per tutelare l'interesse e la dignità di ogni persona, colmando la lacuna esistente nell'ordinamento dello Stato.
 

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